venerdì 28 agosto 2015

I ragazzi di Mergozzo raccontano la loro visita al museo

Il giorno 18 marzo 2015 noi ragazzi della classe II D della scuola secondaria di Mergozzo, insieme alle nostre professoresse Manuela Colla e Edith Parleaz, ci siamo diretti con lo scuolabus verso il Museo Latteria Sociale di Casale Corte Cerro. Lo scopo dell’attività era conoscere meglio le tradizioni del nostro territorio, scoprire come lavoravano una volta gli abitanti di Casale C.C. e sapere come si trasformava il latte per produrre  formaggio, burro e ricotta. Siamo stati accolti dal professor Massimo Bonini che ci ha guidato nella visita spiegandoci tutto quanto riguarda la latteria a partire dal lontano 1872.
Abbiamo innanzitutto imparato cosa significa “Latteria consorziale turnaria”: la latteria è il luogo ove si conferisce il latte prodotto dalle famiglia; consorziale deriva da consorzio, cioè un’associazione di persone che insieme, aiutandosi,  si erano assunti un impegno comune; turnaria semplicemente perché, a turno, tutti i soci dovevano lavorare nella latteria.  Si trattava dunque di una forma di cooperazione tra piccoli allevatori che da soli producevano poco latte e permetteva così di dividere le spese e anche il tempo da dedicare alla lavorazione del latte stesso.
La latteria fu creata dunque nel 1872, poi divenne un negozio e quindi, nel 1987/88 gli ultimi eredi sciolsero la società e donarono al Comune la latteria, che dopo molte ristrutturazioni, dal 4 aprile 2014, è diventata quello che è ora, cioè un “Museo latteria sociale”.
Il latte che veniva conferito alla latteria al mattino e alla sera, che era quello che avanzava dall’uso familiare,  era prodotto soprattutto da mucche, ma anche da capre e pecore e veniva portato al casaro, cioè colui che lavora il latte e produce il formaggio, con i brentini o con secchi. In latteria il latte veniva pesato con la stadera ed il peso veniva registrato su un libro. Raggiunta una certa quantità di latte, il socio aveva il diritto di lavorare il latte, con l’aiuto del casaro, diventava così proprietario dei prodotti di quel giorno ed il suo numero di matricola era scritto su una lavagnetta appesa fuori dalla porta, in modo che tutti sapessero a chi spettava il turno.
Quindi, per prima cosa, il latte giunto alla latteria veniva filtrato per eliminare le impurità: una volta questa operazione era effettuata grazie ad un’erba che fungeva da filtro, il licopodio o “erba braga”, ma poi con il passare del tempo si usarono dei filtri veri e propri. Ogni giorno parte del latte veniva venduto, attraverso una finestrella,  ai clienti che veniva ad acquistarlo con il caratteristico secchiellino. Il latte che rimaneva  veniva poi lavorato e dapprima veniva raccolto in bacili di rame per un giorno e mezzo, per far affiorare la panna che poi veniva tolta con una paletta per fare il burro. Il sistema di refrigerazione era una vasca in cui si trovavano parzialmente immersi i bacili, collegata tramite tubi al fiume: quindi era l’acqua  che manteneva il latte al fresco.
Naturalmente c’erano anche dei controlli per assicurarsi che il latte non venisse diluito con l’acqua: se un socio lo diluiva e il casaro se ne accorgeva, il socio veniva multato; se poi questo avveniva tre volte, il socio veniva espulso dall’associazione.
All’interno della latteria un locale era adibito alla produzione di burro, formaggio e ricotta. Per fare il burro si scuoteva la panna usando una grossa zangola, recipiente di legno prima azionato da una manovella manuale e poi da un motore elettrico. Il burro prodotto veniva poi messo in stampi con il marchio della latteria, coperto da un foglietto di plastica e quindi, una volta tolto dallo stampo, poteva essere venduto.
Per fare il formaggio invece si scaldava il latte in un calderone fino alla temperatura di 36,5 °C, quindi si metteva il caglio per far coagulare il latte. Il casaro mescolava la cagliata con uno strumento a corde chiamato lira, che serviva appunto a rompere la cagliata, e con la sua esperienza sapeva perfettamente quando il formaggio era pronto, quando la “grana” andava bene e non era più necessario mescolare. Quindi il formaggio veniva posto in forme a cerchio, sopra veniva posta una tavoletta di legno e il tutto  veniva pressato con un torchio per fargli espellere il liquido in eccesso. Sul fondo delle forme veniva messo il numero di matricola del socio che lavorava quel turno il latte, in modo che le forme poi stagionate fossero riconoscibili. Una volta tolte dalle presse, le forme dovevano essere lasciate a stagionare in cantina.
La ricotta invece veniva prodotta usando il siero che si trovava nel calderone come avanzo della produzione del formaggio: questo siero, con l’aggiunta di un po’ d’aceto,  veniva cotto nuovamente a 100 a °C poi messo in un colino per espellere il siero residuo che però non veniva nemmeno questo buttato ma bevuto perché nulla andava sprecato!
Alla fine della giornata, terminate le lavorazioni e prima di tornare a casa, si puliva tutto in una vasca, aiutandosi con una spazzola. Il calderone veniva raschiato e si otteneva ancora un po’ di formaggio, che era chiamato “ratt” o “ratin”, date le sue piccole dimensioni, e che di solito veniva dato ai bambini come premio per aver aiutato nelle operazioni di pulizia. Questa delizia veniva mangiata con miele e zucchero.

La visita è stata per noi molti istruttiva e molto divertente: noi ragazzi “delle merendine e della coca cola” abbiamo imparato qualcosa di nuovo ma che appartiene alla nostra cultura e alla nostra tradizione e che troppo spesso, purtroppo,  non conosciamo.

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