Il giorno 18 marzo 2015 noi
ragazzi della classe II D della scuola secondaria di Mergozzo, insieme alle
nostre professoresse Manuela Colla e Edith Parleaz, ci siamo diretti con lo
scuolabus verso il Museo Latteria Sociale di Casale Corte Cerro. Lo scopo dell’attività
era conoscere meglio le tradizioni del nostro territorio, scoprire come
lavoravano una volta gli abitanti di Casale C.C. e sapere come si trasformava
il latte per produrre formaggio, burro e
ricotta. Siamo stati accolti dal professor Massimo Bonini che ci ha guidato
nella visita spiegandoci tutto quanto riguarda la latteria a partire dal
lontano 1872.
Abbiamo innanzitutto imparato
cosa significa “Latteria consorziale turnaria”: la latteria è il luogo ove si
conferisce il latte prodotto dalle famiglia; consorziale deriva da consorzio,
cioè un’associazione di persone che insieme, aiutandosi, si erano assunti un impegno comune; turnaria
semplicemente perché, a turno, tutti i soci dovevano lavorare nella latteria. Si trattava dunque di una forma di
cooperazione tra piccoli allevatori che da soli producevano poco latte e
permetteva così di dividere le spese e anche il tempo da dedicare alla
lavorazione del latte stesso.
La latteria fu creata dunque nel
1872, poi divenne un negozio e quindi, nel 1987/88 gli ultimi eredi sciolsero
la società e donarono al Comune la latteria, che dopo molte ristrutturazioni,
dal 4 aprile 2014, è diventata quello che è ora, cioè un “Museo latteria
sociale”.
Il latte che veniva conferito
alla latteria al mattino e alla sera, che era quello che avanzava dall’uso
familiare, era prodotto soprattutto da
mucche, ma anche da capre e pecore e veniva portato al casaro, cioè colui che
lavora il latte e produce il formaggio, con i brentini o con secchi. In
latteria il latte veniva pesato con la stadera ed il peso veniva registrato su
un libro. Raggiunta una certa quantità di latte, il socio aveva il diritto di
lavorare il latte, con l’aiuto del casaro, diventava così proprietario dei
prodotti di quel giorno ed il suo numero di matricola era scritto su una
lavagnetta appesa fuori dalla porta, in modo che tutti sapessero a chi spettava
il turno.
Quindi, per prima cosa, il latte
giunto alla latteria veniva filtrato per eliminare le impurità: una volta
questa operazione era effettuata grazie ad un’erba che fungeva da filtro, il
licopodio o “erba braga”, ma poi con il passare del tempo si usarono dei filtri
veri e propri. Ogni giorno parte del latte veniva venduto, attraverso una
finestrella, ai clienti che veniva ad
acquistarlo con il caratteristico secchiellino. Il latte che rimaneva veniva poi lavorato e dapprima veniva
raccolto in bacili di rame per un giorno e mezzo, per far affiorare la panna
che poi veniva tolta con una paletta per fare il burro. Il sistema di
refrigerazione era una vasca in cui si trovavano parzialmente immersi i bacili,
collegata tramite tubi al fiume: quindi era l’acqua che manteneva il latte al fresco.
Naturalmente c’erano anche dei
controlli per assicurarsi che il latte non venisse diluito con l’acqua: se un
socio lo diluiva e il casaro se ne accorgeva, il socio veniva multato; se poi
questo avveniva tre volte, il socio veniva espulso dall’associazione.
All’interno della latteria un
locale era adibito alla produzione di burro, formaggio e ricotta. Per fare il
burro si scuoteva la panna usando una grossa zangola, recipiente di legno prima
azionato da una manovella manuale e poi da un motore elettrico. Il burro
prodotto veniva poi messo in stampi con il marchio della latteria, coperto da
un foglietto di plastica e quindi, una volta tolto dallo stampo, poteva essere
venduto.
Per fare il formaggio invece si
scaldava il latte in un calderone fino alla temperatura di 36,5 °C, quindi si
metteva il caglio per far coagulare il latte. Il casaro mescolava la cagliata
con uno strumento a corde chiamato lira, che serviva appunto a rompere la
cagliata, e con la sua esperienza sapeva perfettamente quando il formaggio era
pronto, quando la “grana” andava bene e non era più necessario mescolare.
Quindi il formaggio veniva posto in forme a cerchio, sopra veniva posta una
tavoletta di legno e il tutto veniva
pressato con un torchio per fargli espellere il liquido in eccesso. Sul fondo
delle forme veniva messo il numero di matricola del socio che lavorava quel
turno il latte, in modo che le forme poi stagionate fossero riconoscibili. Una
volta tolte dalle presse, le forme dovevano essere lasciate a stagionare in
cantina.
La ricotta invece veniva prodotta
usando il siero che si trovava nel calderone come avanzo della produzione del formaggio:
questo siero, con l’aggiunta di un po’ d’aceto,
veniva cotto nuovamente a 100 a °C poi messo in un colino per espellere
il siero residuo che però non veniva nemmeno questo buttato ma bevuto perché
nulla andava sprecato!
Alla fine della giornata,
terminate le lavorazioni e prima di tornare a casa, si puliva tutto in una
vasca, aiutandosi con una spazzola. Il calderone veniva raschiato e si otteneva
ancora un po’ di formaggio, che era chiamato “ratt” o “ratin”, date le sue
piccole dimensioni, e che di solito veniva dato ai bambini come premio per aver
aiutato nelle operazioni di pulizia. Questa delizia veniva mangiata con miele e
zucchero.
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